Carissimi parenti e amici d’Italia,
L’anno 2015 è stato per me estremamente gioioso e significativo, perché il ricordo del mio cinquantesimo di sacerdozio mi ha dato la possibilità di ritrovarmi con tanti parenti e amici, e non soltanto in Italia, molti dei quali non vedevo da anni.
Col mio tradizionale messaggio natalizio, voglio ritornare sul tema del 50º, per dirvi che mi considero una persona privilegiata e benedetta dal Signore, anche per la svariata esperienza di fede che mi ha regalato nella sua Provvidenza. Ve la riassumo in quattro momenti.
Primo momento: l’infanzia e la prima gioventù. La vita di fede era ancora caratterizzata, a quel tempo, dalla prassi tridentina. L’ho vissuta in due fasi: a Corbiolo da bambino e in seminario da adolescente. Ci veniva insegnata una spiritualità intimista, spesso scrupolosa; preghiere ripetitive; liturgia schematizzata; devozionismo inculcato a livello personale e comunitario; digiuno dalla mezza notte per fare la comunione; confessione frequente o settimanale; “fioretti” e sacrifici fatti per riparare le offese al Signore; obbligo in coscienza di stare lontani da chi non fosse cattolico; concetto di carità ridotto al soccorso e all’elemosina; per i seminaristi: obbligo di portare la veste talare, di stare lontani dal “mondo” per non esserne contaminati (da donne, dagli amici, perfino dai parenti…). Tuttavia, si viveva con gioia anche così, perché si accettava tutto ciò che era considerato “bene” e volontà di Dio. C’era molta autenticità anche in quello stile di fede tradizionalista, che mi ha dato le basi per assumere in seguito altri generi di spiritualità, senza discostarmi da ciò che è essenziale. Oramai, mi vedo nel numero ristretto di chi ha vissuto quel tempo: chi lo ricorda deve avere oggi oltre una sessantina d’anni, come minimo. Sono grato al Signore per quella prima esperienza di fede.
Secondo momento: elezione di Papa Giovanni XXIII e realizzazione del Concilio Vaticano II. Ho potuto vivere con intensità quella esperienza trasformatrice della Chiesa, che adesso si definiva come “popolo di Dio” e non più come “società perfetta” identificata con la gerarchia. Per noi, giovani seminaristi e ventenni, quel tempo “primaverile” ha rappresentato un vento innovatore che portava tanta speranza e, allo stesso tempo, profonda soddisfazione di sentirci membri di una chiesa che si rinnovava, che cercava di avvicinarsi al “mondo”, ai cristiani non cattolici, ai credenti di altre fedi e a tutte le persone di buona volontà. Mi trovavo in una situazione privilegiata, perché i miei quattro anni di teologia, fatti nel seminario arcivescovile di Milano, sono coincisi con le quattro sessioni del Concilio. I nostri professori ci mantenevano attualizzati su quanto stava succedendo a Roma. Don Valsecchi, mio professore di morale, era teologo consultore, nel Concilio, dell’arcivescovo di Milano, cardinale Giovanni Colombo. Evidentemente, non potevamo studiare i documenti, perché furono approvati quasi tutti alla fine del Concilio. Tuttavia, siamo stati preparati a percepire e accogliere le decisioni conciliari con apertura di mente ed entusiasmo di cuore, perché certamente ispirate dallo Spirito Santo, in una assemblea straordinaria come quella, dove erano presenti e riuniti con il Papa circa 2.500 vescovi di tutto il mondo. Portavo con me, da giovane prete, l’entusiasmo di poter collaborare con la Chiesa nel suo processo di aggiornamento e rinnovazione.
Terzo momento: la difficile fase iniziale di applicazione delle decisioni del Concilio è coincisa con la mia esperienza di Spagna, che definisco come simpaticissima soprattutto per la gente che vi ho trovato. Si era ancora in piena epoca franchista, una dittatura appoggiata dalla chiesa ufficiale che considerava Franco come un autentico liberatore (e all’inizio lo fu veramente) dai soprusi, vezzazioni e tragedie provocati negli anni trenta da un breve periodo di democrazia inspirato nella rivoluzione bolscevico-comunista. Il mio entusiasmo per una chiesa rinnovata dal Concilio si trovava in contrasto, nella Spagna di quel tempo, con la mentalità della maggior parte dei preti, molti dei quali amici sinceri. Tuttavia, ho saputo rispettare quell’ambiente sia perché mi trovavo “in casa d’altri” e sia perché poco a poco venivo a conoscenza delle tragedie del passato, concluse con una violenta guerra civile e fratricida. Alcuni preti di idee innovatrici erano considerati sovversivi e c’era per loro un carcere speciale nella città di Zamora: preti incarcerati per motivi politici, da un governo dichiaratamente cattolico! Paolo VI, mio ammirato e amatissimo arcivescovo quando studiavo nella diocesi di Milano, godeva di poco prestigio e spesso di rigetto da parte di molti sacerdoti spagnoli, soprattutto da quelli di mezza età, cioè dai più influenti nella chiesa e nella società.
Quarto momento: all’inizio dell’anno 1982 il superiore generale della mia Congregazione mi destinava al Brasile. Tutt’ora lo ringrazio! Qui ho trovato una chiesa impostata su una spiritualità totalmente in sintonia col Concilio. Anzi, da poco più di un decennio aveva realizzato due Conferenze straordinarie, a Medellín in Colombia (1968) e a Puebla in Messico (1979), nelle quali le decisioni conciliari vennero applicate direttamente alla chiesa dell’America Latina. Confesso che trovai una certa difficoltà iniziale ad inserirmi nella visione della “Teologia della Liberazione”, perché portavo con me dei preconcetti al riguardo, assimilati in Europa. Ci vollero due o tre anni per capire cosa significavano certe novità teologiche, ispirate nel libro dell’Esodo e applicate nel contesto di paesi e di popoli ingiustamente sfruttati da interessi stranieri e anche locali. La chiesa si era proposta di assumere la sua funzione profetica e di essere la “voce dei poveri”. E questa “scelta preferenziale dei poveri”, divulgata, proclamata, cantata e perfino celebrata nelle liturgie, è stato un elemento facilmente accolto e assimilato da me, fin dall’inizio. Infatti, la scelta dei poveri, che oltre un secolo prima aveva già fatto per conto suo il Fondatore della mia Congregazione (P. Lodovico Pavoni), me la trovavo adesso, pur con connotati diversi, come programma fondamentale di tutta la Chiesa del Brasile e del resto dell’America Latina, dal Messico all’estrema punta del Cile e dell’Argentina. In questo stile di chiesa, in questo nuovo modo di vivere e praticare la fede cristiana, mi sono tuffato con gioia fin dai primi tempi del mio inserimento nella realtà del Brasile, cercando di avvicinarmi alla gente povera. Confesso che mai avevo visto, in Europa, tanta povertà concentrata in “favelas” e agglomerati urbani. Qui ho potuto praticare il vero spirito del Concilio; e nei miei scritti che mandavo per Natale mettevo sempre in risalto la gioia di trovarmi qui, inserito in quel modo di essere chiesa e in quel tipo di spiritualità che adesso Papa Francesco cerca di divulgare in tutto il cattolicesimo.
Completati 50 anni di sacerdozio, guardo al mio passato con molta soddisfazione. Le esperienze vissute e qui riassunte mi obbligano a ringraziare ancora una volta il Signore, mamma papà (+) fratello e sorelle, la mia Congregazione e tanti parenti e amici.
Auguro a tutti BUON NATALE e BUON ANNO 2016, da Belo Horizonte – Brasile.